Il paradigma RSC (Reduced Social Cues)
Il primo approccio sistematico alla CMC è nato all’inizio degli anni ‘80 all’interno della psicologia sociale. Questi studi erano orientati a capire l’effetto della CMC all’interno delle organizzazioni, con lo scopo di creare reti di comunicazione interna. Questo faceva sì che l’approccio alla CMC assumesse un punto di vista abbastanza utilitaristico, in quanto l’obbiettivo era di rendere più efficiente possibile la tecnologia all’interno di gruppi di lavoro che erano, quindi, fortemente task-oriented. Si presupponeva che gli utilizzatori delle reti aziendali fossero dotati di un preciso scopo produttivo e che, di conseguenza, anche la loro comunicazione fosse orientata all’efficienza organizzativa: se la CMC falliva gli obiettivi, per esempio non si arrivava a prendere una decisione in tempo utile all’interno del gruppo, la colpa veniva data al tipo di tecnologia ed ai suoi effetti intrinseci indesiderati.
L’attenzione, quindi, non era sull’effetto che la CMC aveva avuto sull’esperienza individuale ma su quello avuto sull’efficienza di gruppo, sulla coordinazione al suo interno, sulla gerarchia e sul potere.
Da questi primi studi
sulle reti aziendali, si sviluppò il primo approccio teorico
sistematico denominato Reduced Social Cues (RSC), cioè l’approccio
degli indicatori sociali ridotti o limitati8.
Tale approccio, infatti, assumeva che la CMC, per caratteristiche intrinseche al tipo di tecnologia adottata, poteva offrire una larghezza di banda limitata rispetto alla comunicazione FtF; ciò portava al fatto che molte delle informazioni sugli interlocutori non fossero trasmesse, con la conseguenza che le loro “presenze sociali” nel gruppo ne risultassero ridotte e livellate tra di loro. Si riteneva, inoltre, che la scarsità di informazione relativa al contesto sociale in cui avveniva la comunicazione portasse ad una mancanza di quelle norme comunemente accettate e utili per regolare la comunicazione stessa.
Il paradigma RSC sosteneva, pertanto, che gli effetti della CMC fossero una certa anomia comunicativa, che rendeva la comunicazione difficile, disordinata e spesso incline al litigio (flaming), e una carenza di indicatori sociali, che da un lato rendevano il gruppo più democratico, mancando gli indicatori di status e di potere, ma dall’altro molto povero socialmente.
L’approccio RSC è stato in seguito criticato su più fronti. Per prima cosa si contesta il metodo con cui gli studi sono stati condotti: si trattava spesso di gruppi sperimentali, composti da studenti, che sperimentavano la CMC in laboratorio, senza mai essersi incontrati prima e a cui veniva chiesto di portare a termine un compito. I risultati venivano poi confrontati con quelli ottenuti da un gruppo di controllo che interagiva FtF. Questa situazione era lontana da quella reale in cui la CMC si inseriva in un tessuto sociale già sviluppato con le sue relazioni sociali, i suoi ruoli, che spesso non utilizzava la CMC solo per portare a termine un task aziendale, ma magari la utilizzava per gli scopi più disparati.
L’approccio fu poi accusato di
determinismo tecnologico in quanto faceva derivare la povertà sociale
della comunicazione direttamente dalle caratteristiche intrinseche
della tecnologia, cioè dalla sua ristretta ampiezza di banda,
concependo la presenza sociale solo come una quantità di informazioni
da trasmettere.
8 Gli autori principali di questo approccio sono Kerr e Hiltz, 1982, Computer-Mediated Communication Systems. Status and Evaluation, Academic Press, NY; Kiesler et al., 1984, Social Psycological Aspects of Computer-Mediated Communication, in “America Psycologist”, 39, 10, pp. 1123-1134; e Sproull e Kiesler 1986, Reducing Social context Cues: electronic Mail in Organizational Communication, in “Management Science”, 31, 11, pp. 1492-1512.