Hacker – OpenSource e CyberAntropologia
- L’approccio verso il lavoro
“Per realizzare appieno la filosofia Unix, si deve perseguire l’eccellenza”, queste sono le parole di Eric Raymond, il maggiore teorizzatore del pensiero filosofico legato al mondo dell’Open Source. Ed è proprio questa insaziabile ed appassionata ricerca, questa curiosità verso tutto ciò che non si conosce, ad essere il motore che spinge gli hacker e che porta le loro menti a protendersi verso quella conoscenza, verso quella eccellenza sintetizzata nella frase di Raymond.
Una eccellenza che risulterà, naturalmente, irraggiungibile!
Ancora Raymond, nel suo scritto “How to become an hacker”, ammette che “essere un hacker significa divertirsi molto, ma è un divertimento che implica notevoli sforzi”. Sembra quasi di trovarsi di fronte al mito greco dell’avido Sisifo (in questo caso avido di conoscenza!!), utilizzato anche da Dante nella Divina Commedia, condannato nel Tartaro a spingere all’infinito e con sforzi immani un masso in cima ad una collina, dalla quale rotola sempre giù a valle.
Ecco allora svelata la prima motivazione che porta un hacker a questo studio “matto e disperatissimo”, tanto per rimanere in tema di citazioni letterarie.
Spero, però, che non vi sia sfuggita anche la parola “divertimento”, centrale per comprendere appieno il ragionamento che stiamo conducendo. E’ indubbio, infatti, che la programmazione susciti nell’hacker un interesse intrinseco. Mi spiego meglio: per un hacker è il computer in sé ad essere di intrattenimento; non un videogioco, non le animazioni dei siti web. Il computer per l’hacker, insomma, dall’essere mezzo attraverso il quale arrivare al diletto, si trasforma nel diletto stesso.
Ed è questa la seconda motivazione!
Quando dodici anni fa, nell’agosto del 1991, Linus Torvalds, il padre di Linux, pubblicò un annuncio sul newsgroup comp.os.minix comunicando di stare sviluppando un sistema operativo Libero, apostrofò questo messaggio con la frase “just a hobby” – è solo per diletto! Steve Wozniak, colui che ha costruito il primo personal computer, più volte ha ammesso che molte delle funzioni dei primi computer Apple erano state create per provare un giochino di nome “Breakout” da mostrare agli amici del suo club!
Attraverso lo spirito etico degli hacker, si potrebbe quindi stravolgere completamente il classico modo di vedere il lavoro. Si passerebbe dall’equazione attuale, tendente ad ottenere il salario abituale con il minimo sforzo, ad una visione del lavoro come fine a sé stesso, come diletto, come vocazione attitudinale e come realizzazione della propria passione. Soltanto così, scrive ancora Raymond, “il duro lavoro e la costanza diventeranno una sorta di gioco intenso, invece di un lavoro gravoso”.
Questo, a dire il vero, implicherebbe la necessità di prendere in considerazione anche un aspetto di non poco conto nella vita di un hacker. Parlo dello strano rapporto che questo soggetto ha con il tempo. I canonici orari di ufficio, storicamente, non sono mai “andati a genio” a questa categoria di soggetti. Gli hacker, come si può immaginare, prediligono un ritmo di vita basato sulla propria individualità, in una sfera in cui il tempo appartiene solo al programmatore e a nessun altro.
La scorsa estate ho letto un libro molto interessante di Pekka Himanen, forse uno dei pochi sull’argomento che valga davvero la pena leggere, intitolato appunto “L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione”. Di questo testo mi ha molto affascinato un paragone, incentrato proprio su questo argomento, in cui si evidenziava come la scelta di gestire in maniera così libera ed autorganizzata il proprio tempo (oggi si direbbe in maniera “flessibile”), affondi storicamente le proprie radici nei tempi in cui visse Platone. Questo filosofo “definiva la relazione accademica nei confronti del tempo, affermando che una persona libera ha shkolé, ovvero moltissimo tempo […] ed il tempo le appartiene”. L’uomo libero di Platone, quindi, poteva combinare a suo piacimento il tempo lavorativo con quello dedicato allo svago, ed il non avere questa “libertà” era sinonimo di schiavitù o di prigionia.
A naso si capisce subito di trovarsi di fronte ad un’etica del lavoro molto simile a quella rappresentativa del pensiero degli hacker, anch’essa basata sulla effettiva produttività del soggetto e non, come ancora oggi avviene, sulle ore che il soggetto passa nel luogo di lavoro. Solo così infatti, la creatività individuale, che è alla base dell’economia dell’informazione, può essere espressa liberamente e nei modi più adatti al soggetto, senza condizionamenti esterni o orari “di erogazione” (della creatività) prestabiliti.